Chimica di gruppo e come ottenerla

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È proprio necessario iniziare il primo articolo di approfondimento musicale di questo blog parlando dei Maneskin? Probabilmente no, ma siccome i quattro giovanotti rampanti della Roma bene sono ancora un argomento che tira (fresco il loro annuncio come opening act al Milano Rocks per gli Imagine Dragons), io ne approfitterei.

La loro improvvisa e dirompente esplosione sul mercato musicale per il tramite di X-Factor – lo ricordiamo – ha diviso pubblico e critica nei giudizi. Dopo le varie ospitate di prestigio in TV (una su tutte da Fazio), la pubblicazione dei video ufficiali di Chosen (titolo che andrebbe letto con la “o” alla barese e non con la “u” alla salentina come fa il bello e tenebroso Damiano David) e di Morirò da Re e la notizia del repentino sold-out delle date del tour, su Facebook si poteva leggere ogni genere di reazione compresa tra l’entusiasmo apologetico e la furia iconoclasta. La posizione che il sottoscritto solitamente condivide quando si discute di band tirate fuori dal cilindro dei talent è però quella tutto sommato moderata alla Red Ronnie. In primis, perché Red Ronnie era amico di Lucio Dalla ed è uno che ne sa; in secundis, perché anche io credo fermamente che questi ragazzi, pur fortunati nel breve periodo, siano in realtà delle vittime della discografia usa e getta di oggi.

Per i capoccia, un po’ in stile Have a cigar, delle major bisogna battere il ferro finché è caldo ed è per questo che i talenti vengono oggi catapultati senza un’adeguata esperienza pregressa in un mondo fatto di mega-produzioni, mega-palchi e mega-collaborazioni che durano fino all’edizione successiva dello show che li ha lanciati. Risultato? La grande industria discografica ottiene un buon margine di profitti senza doversi sobbarcare rischiosi investimenti sulla crescita degli artisti emergenti. Win-Win, il capitalismo continua a fare schifo. Ma accantoniamo un attimo il discorso proletario, perché ciò che qui ci interessa è capire cosa manca a una band che riceve una spinta dai talent e come acquisire questo quid durante la spesso esaltata gavetta.

Ebbene questo quid è la cosiddetta chimica di band, un concetto che può sembrare etereo ma è invece tanto reale e sostanziale quanto la chimica di Lavoisier. Per anni, in realtà, io stesso ho faticato a comprendere cosa si intendesse precisamente per chimica nel nostro ambito. Avevo sentito tanti rockers e musicisti più navigati di me inserirla nelle loro analisi critiche da sala prove/livehouse, ma le risposte alle mie richieste di delucidazione erano state tra il balbettato e il confusionale. I guess some were made for playing, some other for talking. Per trasformare quei «Sai, voi sul palco suonate dritti ma […] non ci vedo molta chimica. C’è del groove ma ancora manca quel [contrazione delle braccia e gesto svita-lampadine]» in una definizione di senso compiuto mi ci sono voluti due album e due tour tra Italia, Germania e Olanda spalmati su 4 anni.

Alla fine ho capito che la chimica di band è data dall’insieme dei legami di reciproca stima e fiducia artistica che permettono ai membri di una band di incontrarsi su un terreno musicale comune e dare un’identità al proprio progetto musicale. Proprio come degli atomi che, alla meccanica ricerca di stabilità, mettono in comune i propri elettroni in una nube di condivisione, anche i musicisti, alla ricerca di affermazione, condividono spazi, bozze, iniziative e capacità tecniche con altri della loro risma.

Il problema è che inizialmente (in realtà, nella maggior parte dei casi, per mesi o anni) ognuno nella band vede nei suoi compagni un mero strumento per dare forma alla precisa idea di sound che ha in mente. Per questo il membro x cercherà di imporsi e portare il membro y nella direzione musicale desiderata mettendo in campo tutto un repertorio di attacchi all’autostima altrui, ruffianeria ipocrita e psicologia inversa spicciola. Molti legami si spezzano in questa fase e band con del potenziale vanno a farsi friggere per mancanza di apertura mentale. In ogni caso, se si è fortunati, dopo qualche furibonda litigata in sala prove con conseguenti e cerimoniosi rituali di riappacificazione, si riesce a trovare un accordo per chiudere un numero decente di pezzi e iniziare a suonarli in giro.

Senza chimica la vostra musica è come un mostro policefalo (a più teste per quelli poco studiati) che non sa bene in che direzione procedere.

Vi faccio un esempio macroscopico: Glyn Johns, il produttore storico degli Eagles (non un gruppo di ragazzi qualsiasi) ha avuto bisogno di ascoltarli in tre occasioni diverse in un anno tra Los Angeles e Aspen prima di decidersi a lavorare per loro. Il motivo? Glenn Frey voleva un gruppo rock nudo e crudo, Don Henley vestiva ancora gli speroni da cowboy e Bernie Leaden stava in fissa con le melodie folk di Simon&Garfunkel. I componenti della band, senza dubbio molto talentuosi, remavano in direzioni musicali opposte, il loro progetto era immaturo, senza chimica.

Torniamo a noi. In un momento in cui tanti progetti musicali nascono in una stanzetta, davanti a un PC e su una scheda audio acquistata a buon mercato sul Web, trovare la chimica nella propria band è ancora possibile? Certo che sì, basta avere pazienza, suonare un fottio di volte insieme e non bruciare le tappe (quindi in fondo non avevo iniziato coi Maneskin per fare il fenomeno).

Suonare tanto vuol dire innanzitutto trovare una saletta qualsiasi nella propria città, affittarla o occuparla (se siete comunisti e poveri in canna come me), chiudercisi dentro e, come disse Franco Ordine a ControCampo, «buttare la chiave». Coi vostri bandmates dovete amarvi, poi odiarvi, poi amarvi, poi odiarvi e infine apprezzarvi.

Step successivo? Macinare chilometri insieme, per un doppio ordine di motivi: ricevere feedback da gente con cui non andate abitualmente a letto e così comprendere obiettivamente cosa funziona e cosa va rivisto dei vostri pezzi e delle vostre performance; capire fino in fondo il modo di pensare musica dei vostri compagni e il ruolo che effettivamente ha il gruppo nelle vostre vite.

Se sarete ambiziosi e talentuosi a sufficienza per fare tutto questo con abnegazione allora forse vi darò ragione se, dopo il fallimento, vi lamenterete di come vanno le cose con la musica in Italia. In cuor mio mi auguro che, against all odds, troviate la chimica per un gruppo che abbia successo e vi permetta di vivere suonando senza passare dalla rete clientelare di Maria De Filippi. È successo, può succedere, da qualche parte in Italia sta già succedendo anche mentre scrivo.

Marco G. Costante

Marco G. Costante

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