Chiunque segua un minimo la scena musicale internazionale avrà saputo dell’assegnazione del premio Pulitzer per la musica a Kendrick Lamar avvenuta lo scorso aprile. A mio avviso, la cosa che più sconvolge di questa grandissima notizia non è tanto che un tale riconoscimento sia stato dato per la prima volta ad un’artista rap, bensì che un’istituzione come il Pulitzer si sia finalmente accorta dopo tanti anni che esiste anche altro all’infuori dell’ambito classico e jazzistico di ugualmente meritevole.
Chi già conosce DAMN. e il resto della discografia di Kendrick Lamar non ha certo bisogno di ulteriori premi per ammetterne la grandezza su tutti i livelli. La musica del rapper di Compton parla già per se stessa ed è la miglior certificazione della sua qualità. Così come l’hip hop, a maggior ragione, non ha certo bisogno di ulteriori riconoscimenti per far si che la sua importanza culturale e sociale venga oggi accettata dalla maggior parte della gente: è da almeno dalla fine degli anni ‘70 che costituisce una delle migliori forme culturali attraverso cui interpretare l’America (e quindi l’occidente). Lo stupore, quindi, non dovrebbe essere nei confronti di Lamar che vince il Pulitzer bensì verso la commissione del premio americano, la quale finalmente si è svegliata dal suo torpore e si è resa conto che la musica non inizia e finisce con soli due generi musicali, ma che anzi l’ambito pop costituisce oggi (oggi? minimo da quando i Beatles hanno imbracciato i loro strumenti!) la lente privilegiata attraverso cui passa larghissima parte della nostra cultura. In questo, secondo me, sta il senso del Pulitzer per la musica a Kendrick Lamar: l’aver contribuito ad abbattere ancora di più quell’inutile muro fra “cultura alta” e “cultura bassa”, fra “musica colta” e “musica popolare”, un muro che lo stesso Pulitzer, fra l’altro, ha contribuito ad erigere nel corso della sua storia passata. Ma probabilmente non si sarebbe arrivati a questo traguardo se DAMN., l’ultimo album del rapper uscito lo scorso anno e per il quale è stato premiato, non si fosse posto in quella speciale congiuntura che unisce musica, società e politica. Molti critici e giornalisti hanno notato come il riconoscimento arriva in un momento storico particolare per gli Stati Uniti, dove la questione degli afroamericani è un tema ancora scottante e attuale. La dichiarazione ufficiale in merito al premio definisce l’album “a virtuosic song collection unified by its vernacular authenticity and rhythmic dynamism that offers affecting vignettes capturing the complexity of modern African-American life”. Di quanto riportato, sembra proprio che alla commissione del Pulitzer sia interessata più la seconda parte – gli squarci narrativi che descrivono la complessità dell’attuale situazione degli afroamericani – rispetto alla musica vera e propria contenuta in DAMN. Se alla Columbia University cercavano una motivazione attinente più alla sfera sociale, forse avrebbero fatto meglio ad assegnare il premio al precedente To Pimp a Butterfly, album di Lamar del 2015; ma all’epoca c’era una persona di colore come presidente degli USA, e molto probabilmente l’effetto di una scelta simile non sarebbe stato lo stesso anziché nei confronti di un sessista xenofobo come Trump. La musica è andata a discapito dell’aspetto politico, quindi, ma non c’è da stupirsi: ogni cosa è buona per essere strumentalizzata, soprattutto in un momento come quello attuale segnato da forti polarizzazioni. Un ulteriore motivo per ascoltare i dischi di Kendrick Lamar, l’hip hop e qualsiasi tipo di musica ci smuova profondamente, mandando decisamente affanculo Pulitzer e compagnia bella, senza alcun tipo di rimpianto.
I feel like the whole world want me to pray for ‘em
But who the fuck prayin’ for me?
Kendrick Lamar – FEEL.