Tre Allegri Ragazzi Morti – Sindacato dei Sogni

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Sono tornati, sempre così uguali, sempre così diversi. I tre ragazzi di Pordenone, capeggiati da un Davide Toffolo in piena forma creativa, decidono di festeggiare il loro primo quarto di secolo di attività con un nuovo album che esplora nuovi confini, senza però perdere il marchio di fabbrica TARM.

Tre anni dopo Inumani, in cui i Tre Allegri Ragazzi Morti hanno abbracciato la cumbia con tanto di benedizione da parte di Jovanotti, ecco che arriva Sindacato dei sogni, l’ottavo album di inediti, uscito lo scorso gennaio sempre per la loro etichetta, La Tempesta. La novità è nello stile: spazio a due generi diametralmente opposti come l’elettronica e il country che danno all’album un tocco British, quasi a voler dimostrare come in Italia tutto sommato l’underground esista ancora. Già, perché i TARM sono tra i pochi che hanno conservato il vero significato della parola indie, genere nato per essere lontano dal mainstream, e quindi esattamente l’opposto di quello che è diventato oggi.

E questo è forse il filo conduttore di tutto l’album: andare alla ricerca di qualcosa che si è perduto, musicalmente e ideologicamente, i sogni per l’appunto. Testi e musiche sono curati e raffinati, a volte anche un po’ criptici, ma ne risultano dieci canzoni che nel complesso si lasciano ascoltare senza troppe difficoltà.

Si parte subito forte con un trittico molto carico in cui l’elettronica la fa da padrona. I due singoli Caramella e Calamita, insieme a C’era un ragazzo che come me non assomigliava a nessuno, sono tre canzoni molto più intimiste che sociali e danno voce a un senso di inadeguatezza, rivendicando la possibilità di essere sé stessi.

Ma la prima svolta avviene con la simpatica AAA Cercasi, è la storia di una «Ragazza non credente, sessualmente abituata a fare tutto bene», raccontata su un tappeto acustico, quasi folk, che la rende una Bocca di Rosa 2.0 suonata dalla PFM. Il momento country continua poi con il terzo singolo, Bengala, forse la canzone migliore di tutto l’album, accompagnato da un video animato che racconta in chiave moderna una Natività, alla quale i tre Re Magi, al posto di oro, incenso e mirra, portano pacchi contenenti smartphone.

A questo clima goliardico, quasi pop, sono alternate altre perle di stampo più complesso e cantautorale come Accovacciata gigante, una centrifuga di parole che a tratti disorientano, Mi capirai (solo da morto), che rimette al centro il tema dell’inadeguatezza in maniera quasi psichedelica, ripetendo il titolo fino allo sfinimento, e Non ci provare, forse l’unico brano davvero politico di tutto l’album, un inno sarcastico contro la violenza. Il tutto poi si conclude così come è cominciato. Una ceramica italiana persa in California è, infatti, una vera e propria suite di dodici minuti che richiama il progressive anni ’70 con un riff di chitarra che ti rimane in testa e che ricorda un brano di Emerson, Lake & Palmer.

Con questo lavoro i TARM sono ormai diventati maturi, eppure il loro stile non risente il passare del tempo. Tutt’altro, soprattutto il sound è sempre più pulito, album dopo album, e la voce di Toffolo, quasi baritonale, svergogna qualsiasi autotune. Un bello schiaffo in faccia a chi dice che il mondo alternative italiano è finito.

Ivan Cecere

Ivan Cecere

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