Tranquillity Base Hotel & Casino: l’anima noir degli Arctic Monkeys

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Da molti considerato come l’album dell’anno (addirittura!?), Tranquility Base Hotel & Casino, ha dato una veste completamente nuova ad Alex Turner e compagni. E non a caso dico ‘veste’, perché la novità di questo sesto lavoro in studio non sta solamente nel sound completamente diverso dai precedenti, ma anche nel look del leader della band; via le giacche in pelle, i jeans e il ciuffo alla Elvis, spazio ai pantaloni a zampa d’elefante, ai capelli lunghi e agli occhiali da sole.

Certo definirlo un album degli Arctic Monkeys può portare a dire “ma che c’azzecca!?”, ma immaginiamo almeno possa rendere contenti quei fan che hanno apprezzato il Turner solista. Il suo collega Noel Gallagher, dopo aver ascoltato l’album per la prima volta, lo ha definito un insieme di canzoni senza ritornelli; difficile dargli torto. Ascoltato tutto d’un fiato, infatti, l’album sembra un lungo fiume di parole e suoni senza soluzione di continuità, in un rincorrersi quasi martellante di jingle di pianoforte e archi che arrivano talvolta a creare confusione nel distinguere le canzoni, senza che queste si trasformino però in tracce dimenticabili.

A tratti verrebbe da dire sia un concept album dove la canzone di apertura, Star Treatment, fornisce quell’atmosfera underground di fine anni ’60, primi anni ’70, con quel tocco di psichedelia che, non guastando mai, si configura come comune denominatore del disco. Dimenticatevi le chitarre, d’ora in poi il nostro Alex giocherà a fare il coroner su pennellate di pianoforte.

Per avere un minimo effetto di distorsione bisogna aspettare brani come American Sports, Golden Trunks o Science Fiction, che stentano però a decollare completamente, quasi a voler anticipare qualcosa che poi non succede. È come se mancasse sempre quel passo in più verso il salto di qualità, nonostante lo stile di arrangiamento e di composizione rimanga – va detto – di tutto rispetto, specie in relazione alla melma musicale contemporanea.

E non è un caso che una canzone come Four Out of Five sia stata scelta come hit di lancio per l’album perché, oltre a rappresentare il punto più alto dello stesso, contiene l’unico refrain (o presunto tale) capace, alla fine della fiera, di  assestarsi nelle orecchie. Il resto merita di essere riascoltato per avere una chance di riscattarsi da un’impressione iniziale abbastanza piatta. Ed è forse indicativo il fatto che “piatto” sia stato definito da più di qualcuno il concerto che gli AM hanno tenuto a Milano, durante il quale anche i vecchi successi sono stati riarrangiati – per qualche osservatore, snaturati – e calati in un contesto tipico delle fumose sale da gioco americane.

Si sa che cambiare è stata sempre la peculiarità di Turner e soci, ma questa volta il disco si conclude con un finale aperto, quasi confuso, che lascia l’ascoltatore con una domanda senza risposta: sarà un nuovo inizio o l’inizio della fine?

Ivan Cecere

Ivan Cecere

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