Ci servono i concerti per non morire di realtà. Considerazioni a margine di una serata con Iggy Pop

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Quella sera a Bari con Iggy Pop: l’Iguana del Rock

Era il 10 giugno 2017 e Iggy Pop saltellava come un ragazzino sul palco del Medimex di Bari. Io e i miei amici arrivati da Taranto e da Massafra ci assiepammo nelle prime file di Piazza della Prefettura. Iggy aprì le danze da vero stronzo con I Wanna Be Your Dog dei The Stooges, brano Punk del 1969 che fa ancora ballare come quand’era fresco di stampa. Pogavamo come se fossimo abituati a farlo sin dalla nascita; ci sembrava di stare negli anni ’70. Avremmo giurato di avere tutti vent’anni negli anni ’70, in quella sera quasi estiva con cinquantamila presenze, in una città del Sud Italia dove a comandare sono ancora la saggezza popolare e i polpastrelli frenetici delle massaie che producono pasta fresca. Era bello avere vent’anni (qualcosa in più) e nessuna prospettiva davanti, quella sera. Ricordo che portai anche pane e frittata per me e per la mia migliore amica, perché ci sarebbe servito uno spuntino energetico durante le ore d’attesa per assicurarci gli avamposti del parterre. E si sa, pane e frittata è Rock allo stato puro – serve un certo stomaco.

 

La musica dal vivo come collante sociale

Ne ho visti di concerti, ma se penso al concerto più figo al quale io sia mai stato, mi viene in mente proprio quello di cui sto scrivendo: pareva vero! Senza nulla togliere ad altri live che ho avuto la fortuna di gustare, di sicuro “tecnicamente superiori” a quello dell’Iguana, ciò che più mi colpì quella sera a Bari, fu la capacità che ha la musica di unire al di là di ogni pregiudizio. Eravamo un corpo unico, dio se lo eravamo! Cinquantamila persone rapite dalla performance di un vecchietto indistruttibile. Potevamo aver votato chiunque alle elezioni, tifato per chicchessia nel campionato di serie A, creduto o meno in qualsiasi religione: eravamo un corpo unico, ve lo assicuro.

Io ero lì, ma io ero tutti quelli che mi circondavano, e tutti quelli che mi circondavano erano lì, ma tutti quelli che mi circondavano erano me. La sera del 10 giugno 2017 in Piazza della Prefettura a Bari c’è stata la più grande orgia che possiate immaginarvi, eppure eravamo tutti vestiti. Oddio, quasi tutti. Il caldo si faceva sentire e molti di noi ci tennero a squagliarsi ulteriormente a torso nudo – che brutta visione, lo so. Un’ora e mezza o due, non ricordo bene: per quel tempo sospeso la musica riuscì a farci andare tutti d’accordo. Non importava che la giornata fosse andata storta, che il lavoro, che la ragazza, che la famiglia, che l’università, che qualsiasi altra cosa: la nostra carne era il pentagramma sul quale scorrevano le poche note necessarie alla musica Punk per potersi realizzare in tutta la sua rabbia. Le nostre anime vibravano all’unisono, nella fragilità di voler raggiungere un momentaneo distacco dalla realtà, per poterne accettare la durezza nella quotidianità.

Iggy Pop, 10 giugno 2017, Piazza della Prefettura, Bari. Foto: Simone Calienno

 

L’arte della sopravvivenza

Starsene un anno senza film al cinema, spettacoli a teatro, concerti, mostre fotografiche e chi più ne ha più ne metta, non è un buon modo per provare ad allungarsi la vita. Lo so, c’è la pandemia, ma non si muore solo di Covid. Si muore anche di realtà, e la realtà a differenza del virus non se ne andrà mai.
L’effimera finzione inscenata nella nobiltà dell’evasione, non è altro che arte della sopravvivenza. E la musica, sotto questo profilo, ha un ruolo determinante in tutte le nostre vite: è una vera e propria esigenza naturale.

I soldati cantano mentre marciano durante un trasferimento in zona di guerra, perché la musica li aiuta a distogliere i peggiori pensieri sulla morte incombente: <<Topolin, Topolin, viva Topolin>>, si ode nella sequenza finale di Full Metal Jacket (S. Kubrick, 1987), con lo sfondo di un Vietnam infiammato. Gli schiavi d’America, i “ne*ri” che vivevano alla mercé dei padroni bianchi raccogliendo cotone sotto lo schiocco della frusta o svolgendo le mansioni più infime per poco più di vitto e alloggio, rischiando di morire al minimo passo falso, capirono che per sopravvivere alla realtà dovevano cantare. Nell’unione delle vocalità si davano coraggio a vicenda, non aspettandosi di certo che da lì sarebbe nato il Jazz, consegnando la loro sofferenza all’eternità. Le lotte dei lavoratori e dei cittadini di tutto il mondo sono sempre state accompagnate da cori avverso il potere, sintetizzando le rivendicazioni sociali in poche parole cadenzate secondo un certo ritmo: <<Lot-ta du-ra sen-za pa-u-ra>>, gridavano i Sessantottini con tutto il fiato che avevano in corpo.

 

La solitudine dell’ascolto individuale

Questa impossibilità di abbracciarci; di avvicinarci all’Altro da noi attraverso le molteplici espressioni artistiche e quindi anche durante un bel concerto, peggiora un periodo di per sé insopportabile (per i posteri: c’è una pandemia in corso e da un anno non si può far liberamente nulla che non sia mangiare e morire; persino lavorare è diventato un optional).
Me le ricordo le lacrime catartiche versate sulla chitarra di Gilmour. La bocca spalancata sugli effetti speciali di Waters. L’incredulità nell’osservare i balletti di Jagger. La sensazione di minutezza di fronte all’imperturbabilità di Fripp. Il benessere nei riff serrati di Molko. La saggezza nelle parole e nei testi della Smith. Era bello, dopo un concerto, tornarsene a casa (o non tornarsene affatto) un po’ più leggeri, sapendo che anche se la vita faceva schifo avevamo avuto il diritto di dimenticarcene per un paio d’ore. Non era solo bello, era anche giusto: perché ci aiutava a stare insieme, a coesistere nelle differenze, ad amarci. La musica live ha fatto nascere amori, suggellato amicizie, trasmesso emozioni destinate a cambiare per sempre la vita degli spettatori. Nessuno smartphone, nessuna piattaforma di streaming musicale, nessun paio di cuffie megagalattiche potrà mai sostituire quel paio d’ore di sacrosanta pausa dalla realtà, che ritagliavamo per sopravvivere agli stessi tromboni che oggi ci hanno chiuso in casa gettando la chiave, non per tutelare la nostra salute ma per arginare il collasso del Sistema Sanitario Nazionale da loro stessi ridotto all’osso. Abbiamo bisogno di tornare a condividere la musica! Abbiamo bisogno di stare insieme!

 

“Ma i moralisti han chiuso i bar
E le morali han chiuso i vostri cuori
E spento i vostri ardori
È bello ritornar, normalità
È facile tornare con le tante
Stanche pecore bianche
Scusate, non mi lego a questa schiera
Morrò pecora nera”
(F. Guccini, Canzone di notte n. 2, 1976)

 

 

Appendice: Appello alla politica. Riaprite… Qualcosa!

Le manifestazioni artistiche dal vivo devono riprendere subito, per la dignità dei lavoratori e per il bene comune.

In breve:

– posti a sedere distanziati con capienza limitata (al chiuso) e utilizzo di mascherine;

– posti a sedere distanziati con capienza maggiore (all’aperto) ed eventuale utilizzo di mascherine;

– eliminazione del coprifuoco per ragioni di fatto;

– rilevazione della temperatura corporea all’ingresso delle venue;

– sanificazione delle mani e degli ambienti;

– bonus: ipotizzare di vaccinare gli artisti è così folle? Il Sovrintendente e Direttore Artistico della Scala di Milano, Dominique Meyer, lo ha proposto proprio qualche giorno fa.

 

Ce l’avete insegnato voi come si fa, no? Se siete riusciti a inseguire con l’elicottero un uomo che faceva jogging, riuscirete a fare anche questo.

Simone Calienno

Simone Calienno

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