C’era una volta in Italia: l’importanza di Ennio Morricone

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Facciamo un passo indietro…

 

13 maggio 2020: il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, annunciando il Decreto Rilancio, presenta la parte dedicata alla cultura con la frase: “I nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare”.
6 luglio 2020: muore uno dei più grandi compositori italiani del ‘900, Ennio Morricone.

 

Cosa c’entrano questi due eventi fra loro? Da un punto di vista causale, nulla, ovviamente. Da un punto di vista culturale, invece, tantissimo.

 

Come l’Italia ha reagito alla morte del Maestro Morricone

 

Lo ricordate? All’indomani della morte del Maestro Morricone, i media nazionali e buona parte del mondo della cultura istituzionale e mainstream celebrarono la sua figura ricordando, nella stragrande maggioranza dei casi, le sue opere più famose e apprezzate dal grande pubblico, dalla “Trilogia del Dollaro” a Mission, da Nuovo Cinema Paradiso a C’era una volta il West. Il tutto accompagnato dal tipico trionfalismo racchiuso in espressioni che recitavano bene o male lo stesso andazzo, ovvero “Ennio Morricone, orgoglio dell’Italia nel mondo”. Un copione per niente nuovo, già visto, ad esempio, nel 2016, quando al compositore, musicista e direttore d’orchestra romano venne assegnato il suo primo Oscar grazie alla colonna sonora di The Eightful Hate di Tarantino, all’epoca un ritorno al genere western (anche se molto sui generis) dopo trentacinque anni da Occhio alla penna.

 

C’era una volta l’ipocrisia

 

Uno spettacolo del potere stucchevole e vuoto ma, soprattutto, ipocrita, visto che a metterlo in scena è stato un Paese come l’Italia, dove la musica di qualità e ricerca, quella di cui Morricone è diventato negli anni un simbolo, è costantemente messa da parte e relegata ai margini da politica, istituzioni e buona parte degli ascoltatori (anche da quelli che si dicono “aperti”). Quelle riportate in apertura, quindi, non suonano solo come una pessima scelta di parole da parte dell’allora Presidente del Consiglio o chi per lui: è l’ultima testimonianza di una lunga storia di un Paese che da anni, ormai, ha deciso di non investire in cultura, che non vede musicisti e operatori del settore come lavoratori e professionisti da tutelare e che, non da ultimo, concepisce l’arte solo ed esclusivamente come mero mezzo d’intrattenimento. Osservando più attentamente, è proprio quest’ultimo aspetto che pone le basi per gli altri due, e che innerva l’intera visione politica e culturale italiana, una visione normalizzatrice che appiattisce ogni possibile  di significato ulteriore da poter dare all’arte – e che, fra i vari risvolti, fa anche molto comodo al potere istituzionalizzato. Una visione contro la quale la musica di Ennio Morricone si è sempre scagliata, ribaltandola, preferendo invece percorrere strade alternative che conducessero alla possibilità di creare mondi musicali altri.

 

Una proposta di lettura dell’opera di Morricone

 

Come poter rinchiudere la musica di Ennio Morricone all’interno di facili categorie, come quella in primis per la quale è diventato famoso in tutto il mondo, ovvero le colonne sonore? Se Morricone è stato uno degli esponenti – se non il principale esponente – di spicco della musica italiana del secondo Novecento, è stato per via di quella sua peculiare attitudine a essere costantemente a cavallo di più mondi: fra musica d’avanguardia e musica popolare, fra dissonanza e melodia, fra “cultura alta” e “cultura bassa”. Un’attitudine e un tipo di linguaggio che, oltre a trasformare per sempre il ruolo della musica nel cinema, hanno sostanzialmente segnato il suo stile: da una parte il lavoro di arrangiatore e scrittore per la RCA, per la quale ha creato e formalizzato lo stile della canzone pop italiana degli anni ’60; dall’altra il suo profondo interesse per le avanguardie musicali del ‘900, grazie anche all’influenza del suo maestro Goffredo Petrassi, culminato nell’adesione nel 1964 al Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza di Franco Evangelisti, volto a diffondere la musica improvvisata e di ricerca. Questi due mondi, nella visione artistica di Morricone, sono complementari e continuamente in dialogo fra loro, sino a trovare un perfetto punto d’incontro nei suoi lavori per il cinema, sia per le pellicole più famose e ad alto budget e sia per quelle meno conosciute e oggi diventate di culto.

 

Pop nel senso migliore del termine: Morricone e Raffaella Carrà

Proprio l’essere stato un compositore così aperto e versatile, capace di venire incontro alle esigenze dell’industria cinematografica e musicale e dei vari autori con cui ha collaborato, ha permesso a Morricone di diventare una perfetta “icona pop”, nel senso più onnicomprensivo e positivo del termine: “pop” nel senso di “popolare”, cioè portatore e cassa di risonanza di una visione condivisa, che negli anni ’60 e ’70 si traduceva nel ricercare nuovi mondi possibili nella sfera politica, sociale, educativa ed individuale. In questo senso, il Morricone compositore per il cinema è stato un perfetto figlio del suo tempo, capace, attraverso la sua metodologia, di mettere in discussione la tradizione e di porre i differenti materiali sonori con cui doveva lavorare – classica, jazz, rock, funk e derivati – sullo stesso piano, valorizzandoli.

 

Un’icona che nel tempo è diventata simbolo di musica italiana all’estero, stesso destino condiviso con un’altra icona dello spettacolo di quegli anni, Raffaella Carrà. Dal momento che la musica inglese era quella che girava maggiormente nelle radio e che influenzava i trend dell’epoca, non era facile per gli artisti italiani farsi largo nel mercato estero, ma Ennio Morricone riuscì comunque ad imporsi per l’impatto che la sua musica aveva sull’immaginario cinematografico. Potendo tracciare per un momento un parallelismo, come Raffaella Carrà è diventata il volto e il corpo visibile e perfettamente identificabile della televisione, così i suoni, i ritmi e le melodie di Morricone sono diventati la colonna sonora per un intero paese e per gli italiani all’estero. La forza di entrambi risiedeva nel riuscire a parlare alla maggioranza delle persone, di qualsiasi età ed estrazione, e non è un caso che, almeno all’inizio delle rispettive carriere, entrambi siano stati snobbati da intellettuali e critici: troppo popolari per costituire qualcosa di artisticamente valido.

 

Eppure l’elemento “popolare” – del popolo – è stato proprio ciò che ha consentito a Morricone e alla Carrà di far parte del mondo del pop, di poter intercettare sensibilità e nuove prospettive del mondo. Due figli del loro tempo, e che il loro tempo l’hanno creato con l’arte, con canzoni che mettevano al centro la prospettiva femminile sul sesso (oggi definiremmo questa operazione di “empowerment”) e con la danza, come il tuca tuca, un ballo semplice ma provocante, che in poche mosse racchiudeva un’intera visione sulla libertà sessuale; alle composizioni di volta in volta epiche, sensuali, drammatiche e acide, che per la loro intensità scardinavano la quarta parete facendosi largo fra le persone, i loro desideri reconditi e la violenza degli anni di piombo. Non si diventa simboli solo grazie a precise operazioni di marketing, insomma. Morricone e la Carrà divertivano? Sicuramente. Appassionavano? Certamente. Ma la loro eredità è andata ben oltre ciò.

 

L’eredità e il messaggio di Ennio Morricone

 

Chiedersi a questo punto se Ennio Morricone abbia saputo “divertire ed appassionare” suonerebbe, quanto meno, assurdo. Ovvio che abbia saputo fare anche questo, e ad altissimi livelli. Ma la sua figura e il suo lascito dovrebbero oggi spingerci con maggior convinzione a riconsiderare il ruolo del musicista e della musica all’interno della nostra società, in particolare in quella italiana. Proprio come Morricone ha scardinato vecchi modi di concepire la musica in Italia, riuscendo comunque a rimanere “popolare”, così bisognerebbe mettere seriamente in discussione la visione generalizzata ed istituzionalizzata dell’arte e, in particolare, della musica. Musicisti, compositori e professionisti altamente validi continuano a produrre opere e a lavorare in maniera professionale nonostante il disinteresse dei cosiddetti “addetti alla cultura” e di larga parte del pubblico.

 

Ma, ad esempio, sarebbe oggi possibile che un altro Ennio Morricone abbia l’opportunità di raggiungere il grande pubblico con la sua musica mantenendo, per quanto possibile, un minimo di integrità e visione artistica? Non dipende, in larga parte, anche dall’ambiente e dalle condizioni culturali nelle quali un artista opera? Che volto assumerà la musica ora che, in seguito al lockdown, i locali piccoli e medio-grandi rischiano di chiudere, facendo venir meno, quindi, la loro opera di diffusione di nuova musica? Quanto influenzerà questa forte limitazione la nostra esperienza? Che tipo di pubblico si vuole formare? Cos’è, o cosa non è, la musica per noi? E così via, aggiungendo domande su domande, e cercando di dare delle risposte, seppur parziali, a questioni che non sono nuove ma che si ripresentano comunque ciclicamente. Per lo meno a chi pensa che la musica non esista solo per “divertire e appassionare”.

Carlo Cantisani

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