In tempi come questi è molto difficile trovare punti di riferimento da un punto di vista musicale. Con la “scomparsa” del supporto fisico va tutto più veloce e fai fatica a “trattenere” le realtà più interessanti. Ed è questo senso di smarrimento che porta alla luce un sentimento di nostalgia. Quel sentimento che ti pervade se oggi provi a riascoltare Californication dei Red Hot Chili Peppers. Se sei nato negli anni Novanta, o meglio ancora sei stato adolescente in quel periodo lì, questo album non lo puoi non conoscere, e non puoi non averlo.
Proprio in questi giorni ricorrono i vent’anni dalla pubblicazione di quell’album magistrale (quello che una volta si definiva un “manifesto generazionale”) che, contestualizzato nel periodo storico del dualismo tra boy band alla Take That e Backstreet Boys, e dello stile trash di Spice Girls e Britney Spears, sembra essere (anzi, lo è) uno schiaffo in faccia.
I presupposti di un capolavoro si notano fin dalla sua genesi. Terminata l’esperienza stilisticamente fallimentare con il chitarrista Dave Navarro, Kiedis e compagni decidono di reintegrare il vecchio amico John Frusciante, uscito sei anni prima a causa di una forte dipendenza da cocaina e eroina, ma ora completamente ristabilito. Alla produzione, invece, viene mantenuto il solito collaudato Rick Rubin. L’album viene composto all’unisono da tutti e quattro i membri della band; in particolare lo stesso Frusciante è molto ispirato, dato che gli incipit dei singoli più famosi nasceranno da improvvisazioni sulla sua Stratocaster.
Il risultato finale è un mix di Alternative Rock, Funky e Rap, ed è subito riscontrabile nella hit che apre il disco, Around The World, brano scritto da Kiedis dopo aver visto il film La vita è bella, e dove Flea e Frusciante fanno quello che vogliono, e lo stesso Kiedis si prende il lusso di cantare strofe fonetiche senza senso alla fine del ritornello. Si prosegue con Parallel Universe, dove il buon John si diverte a fare il Jimi Hendrix della situazione, e soprattutto dal vivo supera sé stesso (il solo finale durante il live a Slane Castle, rimane una delle sue più grandi performance dal vivo).
Ma quando si parla di Californication non si possono non citare tre canzoni: Scar Tissue, Otherside e la title track. La prima è stata il singolo trainante dell’album, a detta di Frusciante: “Nata da appena due note facili da suonare”, fortemente appoggiata dal produttore Rubin, con un solo finale che è tanta roba. La seconda è un’altra tipica ballad stile Red Hot quasi a voler richiamare Under The Bridge, per ricomporre un legame interrotto sette anni prima; e poi come non citare la stessa Californication, capolavoro assoluto dell’album, che racconta tutti gli eccessi della quotidianità californiana con rimandi alla droga e a Kurt Cobain.
E’ un album dove c’è tutto, ogni componente della band si mette a nudo, e dalle loro storie, i loro vizi, le loro paure e i loro tormenti nascono queste canzoni, destinate a rimanere ancora parecchio, dando il via al trittico perfetto targato RHCP che proseguirà con By the Way (2002) e Stadium Arcadium (2006), terminando con la nuova uscita di Frusciante dalla band, ancora oggi rimpianto dallo stesso Kiedis, consapevole che tutto quello che c’è stato dopo è solo una triste parabola discendente. Le persone cambiano, vanno, vengono, ma i capolavori restano.